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...Sono una bambina capricciosa e sognatrice,
una ragazza complicata e lunatica,
una donna che sta' nascendo e si fa forza per affrontare il peso della vita.


domenica 26 aprile 2015

Sentirsi un po' salvati dall'inferno...

In questo periodo mi sento così.
Non in direzione d'arrivo, non a metà strada,  ho però la percezione di essere in un ambiente confortante. Uno spazio diverso da quell'inferno in cui vagavo da anni.

"Il lavoro non mi piace, non piace a nessuno, ma a me piace quello che c è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi"
J. Conrad.


Frase più azzeccata non potevo trovarla.
La ritengo perfetta, perlomeno nella mia situazione attuale.
Ho sempre dato una grande importanza al lavoro, fin da bambina fantasticavo su cosa avrei potuto fare da grande, a ciò che sarei diventata.
Mentre le altre pensavano a trovare il fidanzatino, a collezionare Barbie, a scegliere il nome dei propri futuri figli, io, in un angolino, pensavo a me stessa, da grande.

Ricordo che inizialmente, durante la scuola materna, volevo fare la parrucchiera.
Ero troppo affascinata dalla parrucchiera di mia nonna, quella signora tutta "chicchetosa" , capelli rossi, rossetto rosso fuoco e orecchini grandi dorati.
Un po' volgare effettivamente, ma lei stava bene, si vedeva come Sapeva indossarli, si notava proprio come fosse a suo agio.
Mi faceva sentire una regina dopo aver curato i miei capelli. Mi faceva sentire bella, come mai pensavo di essere, neanche a quel l'età.
Ed io in futuro avrei voluto semplicemente far sentire belle tutte coloro che ne avevano bisogno, tutte quelle ragazze, signore che avrebbero dovuto apprezzarsi di più.

Passarono gli anni e, con la scuola elementare, cominciai a guardare in TV il programma di Rita dalla Chiesa: "Forum". (Credo che tutti lo avrete visto almeno una volta.)
A me piaceva. Ma tanto eh, talmente tanto da voler rimanere a casa per dormire fino a tardi e guardarlo, anzichè andarmene a scuola.
Mi piaceva il senso di giustizia che apparentemente aleggiava e io, essendo sempre piccola, lo percepivo dal giudice con la toga, da quelle sentenze di cui non capivo una mazza se non chi avesse ragione e chi fosse nel torto.
Da lì comparve la curiosità, la passione per la legge, (so che è buffo, insensato che sia iniziata così, con uno sciocco programma televisivo), per la giustizia, per i diritti... fu la nascita di quel senso di dovere, di responsabilità che ancora oggi porto strettamente dietro.
Iniziai a leggere i giornali, ad interessarmi all'attualità, a cercare libri semplici e comprensibili per gli anni che avevo...

Alle superiori, studiando diritto non potei far altro che innamorarmi della materia.
È stato il primo Amore, un Amore pieno di codici da leggere, studiare, di leggi da imparare, di concetti da capire, di numeri da memorizzare, di parole strane da ricordare.
E così ho intrapreso la strada dell'Università... Di giurisprudenza, facoltà da me tanto desiderata.... quante volte ci sono entrata, come una semplice studentessa, quando in realtà ero ancora minorenne? Mi bastava respirare l'aria di quell'ambiente per essere felice.

Non aspettavo altro, ve lo giuro. Tremavo solo all'idea. Mi batteva il cuore di gioia solo a pensarci.

Iniziò la nuova avventura, durata solamente due anni.
Due lunghi anni con l'ambizione di diventare Avvocato.
Un sogno di una vita, quello di sentirmi donna in carriera, una paladina della giustizia, un difensore dell'umanità, di quegli immensi principi costituzionali tanto ammirati.
Sognavo un mondo migliore. Un mondo GIUSTO.
Fatto da persone giuste, dove i buoni ottengono e i cattivi pagano.
...Visione favolistica vero?
Eppure io ci credevo.

Povera stupida. Persone piu ingenue di me ce ne sono veramente poche.

Mi ero convinta di potercela fare, che sarebbe stato splendido, che ero destinata a rendere reale il senso di giustizia che dentro mi opprimeva.
Invece di questi due anni ricordo soltanto cose negative... Studio straziante, ripetitivo e mai soddisfacente. I risultati ottenuti erano discreti, considerando la media del 29. Però mentre io mi facevo un culo pazzesco, altri ignobili studenti, figli di papà, si prendevano lo stesso voto, studiando la metà. Chi conosceva il professore, chi si sbottonava la camicia, chi leccava il culo a lezione....
Compagni di università che ti cercavano solo per gli appunti, per sapere le domande di esame, per aiuto e poi, appena loro avevano finito, ti lasciano sola tutta l'estate nelle tue paure, nei tuoi pensieri, nella tua tristezza.
Per non parlare dei famosi Principi contenuti nei libri che nella realtà venivano (e vengono!!!) decisamente ribaltati, ignorati, violati, maltrattati... il motto non era più, quello che io avevo stampato in testa e che mi faceva brillare gli occhi: "la legge è uguale per tutti", ma "la legge si applica ai nemici e la si interpreta agli amici".

Sono stata privata del mio desiderio, della mia ambizione, della mia sicurezza.
Attorno a questi castelli di sabbia ormai franati si è alimentata l'anoressia...(oltre ai problemi familiari...) ... Sempre più prepotente, più stretta, più forte mi ha avvolto nelle sue grinfie, non lasciandomi quasi più fiato, più spazio per niente e nessuno...mi sono lasciata cullare dolcemente da essa dato che ormai non valeva la pena rimanere.

E oggi dopo una lotta straziante, mi ritrovo cambiata, piena di lividi in ogni parte del mio corpo, con un cuore martoriato ed una testa confusa, barcollante.

Eppure "...io sono ancora qua", come dice Vasco.
Qua semplicemente per merito di poche persone ed in particolare grazie al LAVORO.
(Un lavoro vero e proprio PURTROPPO non ce l'ho,  ho una occupazione soltanto per 3-4 giorni a settimana nient'altro.)

A quelle ore di distrazione dai pensieri, di affermazione delle mie potenzialità, di crescita intellettuale, di soddisfazione personale che solo esso è stato in grado di donarmi.

Perché dopo una giornata intensa di lavoro non c è niente di più bello che tornare a casa stanca, sorridente, con la pancia vuota in attesa di mangiare il piatto preparato da tua mamma o da babbo senza sentirti in colpa, ed al tempo stesso con una testa estremamente piena di soddisfazione.

Forse si, forse ho davvero imboccato la strada per trovare me stessa. (?)
Forse il lavoro è l'unica cosa che può salvarmi.


E voi a chi/che cosa riconoscete il merito di avervi aiutate? Chi, o cosa è, secondo voi, la vostra "salvezza" di fronte alle difficoltà?


Grazie per i commenti, per le visite.
Un bacio a tutti.



Ilaria

venerdì 17 aprile 2015

Infantilità.

Sarà venerdì 17 che già all'idea non mi sta simpatico, sarà il tempo variabile - pioggia, sole, nuvole, vento, sole, pioggia, sole- a farmi venire un'uggia immensa, sarà il mal di schiena causato proprio dal meteo (accidenti alla meteoropatia!)

Sara quel che sarà, ma oggi non ce l'ho ho fatta.
...direte voi: "A fare cosa?"

A trattenermi dal piangere.


Oggi proprio no, in quello studio, davanti alla psicologa sono crollata.

E così banalmente poi...



Non è da me.
Non è da me cedere in un pianto infantile, sciocco, improvviso davanti a qualcuno.
Sono una che programma tutto, anche quando andare al bagno.
Figuriamoci le emozioni.
Quelle, cavolo, le ho spesso sapute controllare in modo egregio, signorile....
Anche davanti ai massimi esperti ho saputo fingere, sono riuscita ad apparire contenta, sorridente, talmente tanto da farmi togliere i farmaci. (Me lo meritavo oppure no? Ho finto veramente e ci sono caduti come dei bambolotti o no? ...Lasciamoci il dubbio và)

...Quante volte ho fermato la voglia di piangere in pubblico, quante volte ho tirato su col naso, ho chiuso la bocca facendo un respiro profondo, ho guardato in basso, ho preso un fazzoletto per fermare le lacrime giustificandomi con l'allergia.

Stasera no, per la seconda volta da quando faccio le sedute con la mia psicologa ho ceduto.
(Quanto me ne vergogno...
Veramente eh! Non sto scherzando!)

Ho ceduto come una stupida cretina di fronte all'argomento amicizie.
Accetterei di piangere per un argomento serio, come una morte, un licenziamento, una litigata, un problema fisico, una bocciatura... ma cavolo mettermi a piagnucolare per il semplice fatto che non esco mai, che le amiche che "ho"non mi piacciono, che mi cercano soltanto in certi casi, facendomi sentire la "ruota di scorta" e sopratutto perché domani non vorrei uscire, a fronte del loro invito.... è da NEONATI.

Neonata eh gia'... Una che si definisce matura, grande, a volte persino vecchia perché troppo saggia... E in fondo ancora è una bimbetta.
(Bleh.)

Odio questo termine.
Lo odio perché mi ritrae completamente. Me lo sento cucito addosso talmente tanto da voler negare l'evidenza. Babbo me lo ripete spesso... Anche oggi! Un ragazzo mi definì così anni fa, pure mamma me lo ha urlato contro...
Sono una bimbetta da capo a fondo, in tutti gli aspetti della mia vita.
Una bimbetta nel mangiare, nel pretendere gli abbracci, nel voler essere al centro dell'attenzione, nel non saper accontentarsi mai, nel ricercare la perfezione e la felicità di Barbie e Ken, nel sognare il principe azzurro che mi salva dal diavolo che ho dentro, nell'insicurezza micidiale che mi annienta ogni minuto, nella ribellione di fronte a certi ordini che mi vengono dati, nel comportarmi con i ragazzi, nel vergognarmi del mio corpo, nell'uscire con i miei genitori, nel passare le giornate in un'altro mondo, il mondo dei desideri, del piangersi addosso, della scontentezza.


E potrei continuare in eterno.
Smetto perché non avrebbe senso andare avanti...

Mi ferisce nel l'orgoglio sentirmi etichettare così.
Vi giuro che mentre ne parlo mi brucia qualcosa dentro, digrigno i denti dalla rabbia, stringo il polso con la mano da lasciarci il segno, mi lacrimano gli occhi dal nervoso... (E faccio la cyclette per sfogarmi, ovvio)

Non l'accetto.
Non accetto sapere di essere in tal modo, di essere una ritardata, una che non riesce e che non vuole crescere.
Perché non avrei mai voluto ritrovarmi così.
In questo stato pietoso, a nuotare in questo mare di merda mentre gli altri a riva mi guardano attoniti e si mettono una mano sulla testa come per dire: "che ci vuoi fare..."
Non accetto sentirmelo ripetere da tutti, anche la psicologa stessa ha definito le mie turbe infantili.


"Comprensibili, tipiche della patologia, da togliere... Ma infantili."

E io che mi credevo troppo cresciuta, troppo dura rispetto agli altri mi ritrovo invece così tremendamente debole, innocua, fragile come una bambina.

Che delusione.
Che amarezza.
Che tristezza.


Dovevo saperlo.. No?
No, non lo sapevo! 

Mi illudevo di essere una sorta di cugina di Leopardi, destinata a vedere il mondo con il pessimismo cosmico, a soffrire senza una ragione perchè mi piaceva considerarmi una "perla rara" che non può accontentarsi della normalità, ma che ha bisogno di qualcosa di più, mi illudevo persino di dimostrare più anni esteriormente ed interiormente dinanzi agli altri, di essere più matura a causa delle difficoltà passate in casa e di essermela cavata senza i miei genitori varie volte...

E invece no, tutti i miei comportamenti attuali probabilmente sono dettati da una forte infantilità, una voglia di non crescere mai per non assumermi le responsabilità, la pesantezza tipica degli adulti, i macigni di commissioni da fare, giustificandomi sempre di aver bisogno degli altri, di non riuscire a farcela da sola ........


Mi dispiace per il post.

È veramente sciocco, povero, ma avevo bisogno di scrivere. 
Di mettere a fuoco tutto il mix esplosivo che ho dentro la testa, lo stomaco, il cuore...
Mi ero promessa di farne uno positivo, sulla base dei miei miglioramenti, dei sorrisi dei giorni scorsi. Volevo creare un incoraggiamento per voi altre, e invece anche stavolta non riesco.
Spero ardentemente di farlo presto. Perché non si può negare quanto abbia lottato in questi mesi, nonostante non sia poi così in avanti, come credevo.

Vi auguro un buon fine settimana.
Al mio non ci voglio pensare.

Grazie per leggermi.
Ilaria

venerdì 10 aprile 2015

Contorsionismo mentale su "Uno, nessuno e centomila"

L'opera Pirandelliana (e non) che preferisco in assoluto.
Un vortice di riflessioni trascendentali che portano il lettore a porsi domande su sè stesso, sulla sua esistenza e su quella degli altri.


Lo lessi la prima volta come compito per le vacanze in quarta superiore, un ordine datomi dalla professoressa di Italiano, la quale dava l'impressione di essere un comandante dell'esercito più che un insegnante: dura, fredda, robusta (seppur bassa di statura), occhi gelidi e una voce alta, sempre furiosa.
Fui costretta a leggerlo, perlomeno inizialmente, e la cosa non mi piacque affatto.
Ho sempre odiato essere obbligata a fare qualcosa, tant è che produco molto di più nel momento in cui sono lasciata "libera" (apparentemente) poiché sono io stessa ad incatenarmi e ad impormi di agire.

Ricordo che cominciai la lettura sbigottita, rassegnata... Era troppo contorta fin dall'inizio.
Lessi dieci pagine e richiusi subito dopo, con l'idea che avrei trovato un riassunto su internet e lo avrei rielaborato un pò per l'esposizione.
E invece no, un primo pomeriggio assolato della metà di luglio, quando la temperatura aveva raggiunto effettivamente il picco stagionale, decisi di riprovare a leggere tale libro sotto un ciliegio, ormai vuoto dei suoi frutti, ma colmo di foglie adatte per un buona ombra rinfrescante.
Mi accovacciai sul terreno, intorno un silenzio di voci umane, soltanto i dolci cinguettii degli uccelli e il rumore delle cicale.


Partii a leggere, mi infilai dentro le parole come se fossimo tutt'uno, un'unione così inaspettata ma allo stesso tempo così incandescente. E, come se fosse passata soltanto una mezz'ora, mi accorsi che il libro era più che a metà, intorno il sole si era spostato verso ovest e i gradi erano scesi.
Il tempo volò così velocemente che rimasi impressionata da quanto quest'opera mi avesse rapito.
Mi guardai intorno diversamente dal solito, forse con occhi differenti, forse osservando da una angolazione diversa, probabilmente con una mente differente.
Fui letteralmente stravolta dalle decine di frasi che avevo appena sfogliato...
Ero confusa, mi sentivo persa...
... Cambiata.

Può un semplice libro, in una banale giornata cambiare una sciocca persona? 
(...)


Oggi, a distanza di anni, ho riletto questo libro. Per intero.
Era già accaduto più volte di concentrarmi su alcuni discorsi e riandare a scorrere soltanto alcune pagine.
Ma Adesso, alla mia seconda fine di questo capolavoro (lasciatemelo dire) mi sento ancor più appartenente alla tematica trattata, al Moscarda, alla sua pazzia, al suo elogio verso il vivere identificandosi in forme sempre diverse, cercando (pur non riuscendo) di non indossare quelle maschere, tanto presenti e necessarie nella società.

Io vorrei vivere così. Come lui, il protagonista del libro.
Desidererei morire e rinascere ogni attimo, riconoscendomi in qualunque cosa, in un albero, in un animale, in un fiore. La dissoluzione totale nella natura, rifiutando lo schematico, l'anagrafico, il settoriale tipico del nostro mondo.
E sarei disposta a tutto pur di riuscirci, pur di frantumare il forte "io" che c è in me e di far venire a galla l' impetuosa alienazione da me stessa che bussa dentro la mia testa.

In fondo, riflettendo bene, ho potuto constatare come i pensieri anoressici siano cominciati proprio in quel periodo. Inizialmente erano solo vaghe e stupide sensazioni, rinchiuse in un cassetto mentale a doppia mandata , con la convinzione che mai e poi avrebbero potuto uscire, prendere il sopravvento. Sinceramente neanche sapevo che tali angosce erano tipiche di una malattia, sembravano semplici dubbi, debolezze di una ragazza in crescita. Niente di più.

Che poi mica voglio dare la colpa a Pirandello se ho avuto l'anoressia. Ci mancherebbe.
Nulla di ciò si insinua nel mio cervello (bacato).
Voglio solo puntualizzare come da questa lettura si siano sviluppate numerose riflessioni fra me e me che mi hanno portato a conoscermi meglio, a comprendere il mio disagio e capire effettivamente il motivo per cui spesso mi sentissi così estranea, non appartenente al mondo, con quella voglia immane di evadere, di nascondermi, di liberarmi da tutte le catene materiali.
Ho acquisito una grande consapevolezza, che forse solo oggi riconosco fortemente: l' essere a conoscenza della visione soggettiva- umana della realtà.



Il fatto che ognuno di noi si intraveda in un certo modo e che, contemporaneamente, gli altri vedono noi stessi in centinaia di modi differenti, fa sì che noi (uno), siamo centomila e nessuno allo stesso tempo.
Comprendere come io non sia quella persona che credevo (e credo) di essere dinanzi allo specchio, ma essere tantissime persone diverse per ogni sguardo, mi fa rabbrividire.
Cioè... Io che mi sento uno schifo fuori, brutta dentro, che combatto contro la mia immagine posso sbagliarmi. Posso essere vista così bella da altri, come ancor più terrificante da altri ancora.

Non c è certezza. Non c è sicurezza. Non c'è oggettività. 

È tutto così sfumato, così grigio, così discordante, ineguale che mi perdo.
Mi perdo nell' incertezza dell'essere.

Nella comprensione che io, che credevo di essere tutto, in realtà sono centomila e allora mi divago, corro da una parte all'altra, disperata, affannata, alla ricerca di me. Di chi sia io veramente.

E in sostanza chi sono? 
Semplicemente NESSUNO.
Nè quella che vedo allo specchio, nè l'Ilaria che i miei vedono, quella del passato "triste e scorbutica", nè quella "cattiva e stronza" per alcuni, nè quella "leale e altruista" per altri.
Niente di tutto questo.

Mi sono ritrovata a lottare mesi e mesi per cercare di togliermi da tutta questa inesauribile materialità, da questi enormi e pesanti giudizi che ti affibbiano una parte in questo crudo spettacolo che non è nient'altro che la vita.
Ho tentato di sparire da questo mondo a causa del mio enorme malessere quotidiano, della mia sensazione di "non appartenenza", ho cercato di sfuggire ad ogni maschera che mi sarebbe stata imposta quando in realtà (realtà? Qual è la realtà?) non ho fatto altro, inevitabilmente, che costruirmi una nuova immagine: quella della malata.

Un costume fatto di pietà altrui, di occhi sbalorditi di fronte ad un essere troppo magro, troppo solo, troppo silenzioso, troppo triste per il mondo attorno. Troppo diversa per vivere. 
Ho cominciato ad essere guardata strana, come si fa con i matti. 

Quanti occhi che mi scrutavano sbigottiti, schifati, con l'aria di superiorità e di "condoglianze" verso la morte della mia normalità.
E sì, alla fine, anche io ho iniziato ad appartenere proprio a quella assurda categoria, creata allo scopo di impostare, di riconoscere le persone per "gruppi".
Nessuno mi ha mai chiamato pazza, ma tutti mi hanno fatto sentire in quel modo. (Ma tutti tutti eh, nessuno escluso.)Forse lo ero/sono davvero. Probabilmente sono folle allo stato puro.

Ma non mi è dispiaciuto affatto.
Neanche adesso che qualcosa è cambiato mi dispiace.

Quello che mi dispiace più di altra cosa è l'essere stata categorizzata anche durante la pazzia, il non esser riuscita ad evadere da tutte le imposizioni vitali.
Ê buffo... vero? Cercare di togliersi mille etichette per arrivare ad indossarne una nuova. 

Senza possibilità di rimanere completamente nuda. Mai. 


Ed è in questo istante, durante la mia risalita verso la "normalità, che porto con me un nuovo costume, quello colorato, fiorito, pieno di brillanti, bello all'apparenza, ma pur sempre un ennesimo travestimento.

Un fallimento personale, come lo stesso Moscarda ebbe:

L'ESSERE OBBLIGATI AD INDOSSARE UNA NUOVA MASCHERA PER VIVERE... ANCORA.


Come sempre vi mando un saluto 
e vi ringrazio per ogni visita, commento! :)

Ilaria

giovedì 2 aprile 2015

Riflesso sbagliato.



“Bisogna avere il coraggio di salvarsi, di guardarsi allo specchio e capire che è per l’immagine che vedi riflessa che vale davvero la pena viverla questa vita.”




Questa splendida frase l'ho trovata su un post del blog, di un amico, Paolo, uno scrittore di emozionanti racconti che leggo quasi ogni giorno.
Racconti pieni di passione, amore, sincerità, di... Vita.
Se siete amanti della lettura riflessiva, sentimentale, filosofica, ve lo consiglio vivamente.

Torniamo alla frase: bè... inutile nascondervi che mi è rimasta impressa fino al primo istante che l'ho vista.
Vista, osservata, esaminata. In ogni minimo dettaglio.
Mi ha colpito per la sua estrema semplicità, per la verità assoluta che trasmette. ...Cavolo se è vera!

Dato che la condivido appieno mi sono detta: “Ilaria, queste parole cerca di metterle in pratica! Non lasciare che restino solo discorsi al vento... Abbi il coraggio di osservarti, di amarti, di vivere per te stessa, quella figura che vedi riflessa allo specchio”.

Essere d'accordo su qualcosa, su un certo comportamento che riguarda tutti fa sì che noi stessi dobbiamo – o meglio, dovremmo – essere i primi a metterlo in atto.
Presa da una buona dosa di istinto, stranamente non frenato dalla mia zona mentale unicamente sviluppata (quella riflessiva-paranoica) mi sono diretta in camera di mamma, dove c'è lo specchio più grande, intero.

Ci ho provato.
Ho voluto tentare.


Ero lì vestita con una semplice canotta nera, un paio di slip e nient'altro. Quasi nuda, per vedermi ancora meglio, senza nascondermi fra i vestiti.
Ho alzato la testa e...
Ho osservato la mia immagine riflessa, interamente, dritta, rigida, intimorita.

Ho guardato il mio riflesso, sbagliato.

Ho notato subito le imperfezioni del viso, delle gambe, i capelli fuori posto, la pelle bianca.
Poi ho provato a sorridere. A muovere quei maledetti muscoli della bocca cercando di realizzare una specie di sorriso. E ciò che ne è uscito fuori è stata soltanto una terrificante smorfia forzata e senza sentimento.
E poi ho guardato gli occhi. Quelli sì che erano angoscianti.
Il color nocciola profondo, impenetrabile, le pupille tremanti.... stavo quasi per piangere.
Ed infatti, come da copione, come mi aspettavo, il pianto due secondi dopo è arrivato: Piccole lacrime sono scese dagli occhi, hanno rigato il viso stanco e rattristato, fino ad arrivare alla bocca... il loro sapore, così amaro, forte, deciso.
Ecco il pianto (sfogatore) sintomo di tanto malessere, di fragilità, di scoraggiamento.

Me lo immaginavo che sarebbe finita in questo modo.
Lo sapevo che sarei stata una debole, una sciocca bambina che non sa' accettarsi, che non riesce neanche a guardarsi dinanzi ad uno specchio senza piagnucolare.

Mente tremenda, cattiva, nemica che mi fa vedere ogni mio difetto, paura, carenza.
Nascondendomi ciò che di bello c'è – se c'è -
Una mente contorta che sostiene caldamente la tesi dell'accettazione verso sé stessi per poter vivere bene. Per poter vivere davvero, anziché sopravvivere, ma che, un istante dopo, inaspettatamente mi tradisce, facendo trasparire soltanto la bruttezza. Esteriore ed interiore.

Ed ecco che va a prevalere quest'ultima parte.
Un disagio infinito.
Tanta rabbia, una rabbia che sa' di sconfitta, di fallimento.
Ci ho provato sì... ma ho fallito.
Ancora.
Di nuovo.

Da una parte la consapevolezza dell'andare avanti, di dover vivere e dall'altra lo sconforto, il buttarmi la zappa sui piedi da sola, non curante dei danni ulteriori che potrei provocarmi, o addirittura convinta di meritarmi solo il peggio, solo il dolore.

Mi sento perennemente in bilico fra questi due mondi.

Sono stanca di sopravvivere, stanca di privarmi della serenità, stanca di vedere soltanto il negativo.
Eppure, nonostante la stanchezza, ci ricado clamorosamente, in maniera così banale, da sciocchi e immaturi: osservandomi allo specchio.
Giudicandomi soltanto con pensieri affilati come lame. Che fanno male. E Che portano solo male.
[Che poi tra parentesi, quadra per giunta, faccio una osservazione da bambini dell'asilo: la parola “lame” e la parola “male” sono composte dalle stesse 4 lettere... (okay, ho detto una ennesima stupidaggine, ma capite con pietà la mia inettitudine!)]

Perchè tutto questo?

Perchè non è così facile mollare le assurde convinzioni negative di noi stessi e mettere in pratica gli ottimi consigli che sappiamo dare solo agli altri?



Post noioso, ma oggi è così. Scusatemi.
Un saluto e un ringraziamento a tutti voi :)




Ilaria.